Sul punto di iniziare questo processo ho vissuto un conflit-to intimo fra la responsabilità professionale di rappresen-tare gli interessi delle parti civili -e perciò partecipare del ruolo dell’accusa- e la pulsione morale di ricercare non un colpevole, ma il colpevole, ossia di ricostruire una verità giudiziaria che fosse verità oggettiva, non ricostruzione ad uso di una parte.
Potrebbe sembrare un ripensamento, dal momento che proprio io per ben due volte mi sono adoperato a convin-cere il GIP a rispedire le carte al PM, che invece chiedeva l’archiviazione. Ma le mie opposizioni, quantunque nell’interesse di una parte, non hanno mai accusato Mar-cello Sp. hanno solo indicato i possibili approfondimenti, le contraddizioni, le cose non fatte.
E’ stato poi il PM, alla fine della complessa istruttoria a decidere che gli elementi raccolti bastavano a sostenere l’accusa di uxoricidio; è stato poi il GIP a decidere che v’erano le condizioni per celebrare un processo, non io.
Ma mi sono ritrovato in aula a dover accusare e il pathos è stato profondo. Mi sentivo solo davanti ad una responsa-bilità grande.

Mi è stato di grande aiuto rileggere alcuna pagine di Mario Berri, giurista cattolico e Primo Presidente emerito della Corte di Cassazione, che ebbi l’onore di conoscere appena laureato, il quale in un pregevole libro, “Giudice e avvoca-to: una toga sola” accomuna la responsabilità del Giudice a quella dell’avvocato, ambedue operatori di Giustizia con le stesse responsabilità e le stesse perplessità morali, che per ciò stesso devono collaborare nella ricerca della verità ed essere l’uno al servizio dell’altro, scevri ambedue da presunzioni di certezza e con l’umiltà, ambedue, di ascol-tarsi reciprocamente per giungere insieme alla conclusione del processo, in cui –certo- sarà il Giudice a decidere in un tormento tutto suo, ma non sarà solo se avrà l’animo di va-lutare con attenzione e con rispetto il lavoro e il contributo del difensore, il materiale probatorio e i suggerimenti che l’avvocato gli avrà offerto.
L’avvocato, dal suo canto, ha il dovere morale di offrire la propria interpretazione, comunque soggettiva, ma con o-nestà intellettuale, cosicché ambedue –giudice e avvocato- siano compagni di viaggio sulla strada del dibattimento fi-no alla decisione.
E allora non mi sono sentito più solo e mi sono detto che il processo è il luogo dove si forma la prova, dove l’attività svolta dal PM non conta più, si ricomincia daccapo e dun-que avrei guardato al nascere della prova insieme a voi e insieme a voi ne avrei fatta l’analisi più oggettiva possibi-le attraverso le norme che regolano il processo e l’aiuto della giurisprudenza, il precedente, l’esperienza che hanno fatto altri Giudici, più o meno autorevoli per grado, ma pur sempre uomini tormentati dal dissidio intimo, che av-volge anche l’avvocato.
E con questo spirito ho affrontato questo processo: cercare insieme a Lei signora Presidente, a lei Giudice a latere a voi giudici rappresentanti del popolo, la verità, valutando insieme quello che stava per nascere in quest’aula.
Avrete notato anche che alle prime battute del processo, ho modulato i miei interventi con prudenza, perché avevo in animo di essere oggettivo, distaccato, e vi dissi all’inizio che non mi interessava accusare ad ogni costo Marcello Spiridigliozzi, ma capire piuttosto cos’era suc-cesso.
Ebbene, man mano che il processo è andato avanti ho co-minciato a “vedere”, e a vedere chiaro, ed oggi sono con-vinto, e se concludo per la responsabiltà dell’imputato, lo faccio senza tormenti particolari, con animo tranquillo, perché ritengo che abbiamo raccolto elementi eloquenti della responsabilità del prevenuto.

Guardiamo insieme i risultati dell’istruttoria in ordine ai tre elementi essenziali: luogo, occasione, movente.

Il luogo.
E’ una palazzina bifamiliare in un’area recintata, ma at-tenzione, dal verbale di sopralluogo del 20/5/1997 alle ore 6,50 degli operanti Nocera, Stavole e Sacco si apprende che la casa si raggiunge con un viottolo tortuoso e sterrato che inizia sulla via provinciale Ravano.
I due appartamenti, comunicanti fra loro, sono al piano superiore e vi si accede da un’unica scala.
Poi ci sono due donne, ambedue pienamente capaci, all’epoca. Una sta in casa, l’altra sta giù.
La casa non è isolata, poiché ci ha detto la teste Spiridi-gliozzi Maria Giovanna che abita praticamente ffianco.
Nella stessa area c’è il macello. E’ lunedì, giorno prima della macellazione e –ci è stato riferito da Tommaso Spi-ridigliozzi- alcuni portano le bestie il giorno prima. Non c’è movimento, ma qualcuno può sempre venire.

La difesa dell’imputato e l’imputato stesso non hanno mai insinuato apertamente che ad uccidere Pina sia stato un e-straneo, ma escludendo ostinatamente la presenza di chic-chessia della famiglia dalla abitazione, non può che con-durre a questa prospettiva. E’ stato un estraneo.
Ebbene, in un contesto logistico del genere, primo, un e-straneo sarebbe stato avvistato, quantomeno da Spiridi-gliozzi Maria Giovanna, che abita affianco, anche perché –ricordate- alla casa si accede per un viottolo sterrato e tortuoso, non direttamente dalla via pubblica; quindi c’ un tratto di possibile avvistamento; secondo, un estraneo sa-rebbe stato udito perché, essendosi fuori dell’abitato di Pontecorvo, avrebbe dovuto avere un mezzo di locomo-zione, terzo, un estraneo sarebbe stato avvertito all’interno dell’abitazione, se non altro perché l’aggressione certa-mente non è stata silenziosa, addirittura si sono rotte delle piastrelle si sono rotti gli accessori del bagno; e il fatto che la povera Pina sia stata sbattuta con la testa nel muro fa pensare ad un rumore che in un luogo fuori dell’abitato necessariamente si avverte almeno dall’appartamento ac-canto.

L’occasione. Altro elemento utile da ricostruire.
Quel giorno evidentemente Gaetano Spiridigliozzi dovè uscire per primo, in quanto risulta dalle testimonianze che fu di ritorno alla macelleria dalla moglie intorno alle 17,30 e prima era andato a Cassino, e ci risulta che alle 17 era dalla Avallone.
Risulta pure che Davide e Letizia uscirono con la nonna e lo zio Tommaso intorno alle 16. E’ Tommaso che lo rife-risce: uscirono grosso modo alle 16.
La conclusione è -e non può essere altrimenti- che Marcel-lo Spiridigliozzi fu l’ultimo ad uscire e, per quanto ci ri-sulta, a vedere la moglie viva.
Rimarrebbe Chiara che si vorrebbe non definito se uscì con il padre o con il nonno o addirittura sia rimasta in ca-sa, ma la circostanza è chiarita da Davide che afferma che il padre arrivò da solo alla macelleria della nonna e se lui, stando a Tommaso, era uscito con Letizia e la nonna, è giocoforza che Chiara sia andata con il nonno, tant’è che Davide la ritrova alla macelleria della nonna la sera, dopo che il nonno è tornato da Cassino, quando va a casa con il padre. Comunque sarebbe un particolare trascurabile poi-ché trattandosi di una bambina di tre anni, anche se fosse rimasta a casa, la si poteva tranquillamente distrarre in qulcosa per il tempo necessario all’omicidio.

Marcello Spiridigliozzi avrebbe dovuto aprire il negozio alle 16 perché tutti concordemente affermano che questo era l’orario di apertura e a quest’orario la macelleria veni-va solitamente aperta, tant’è che –quantunque si sia cerca-to di spostare in avanti l’uscita di casa della Siciliani Elisa, sua madre- è rimasto accertato certo che ella uscì intorno alle 16, per dichiarazione di Tommaso, abbiamo detto. Invece Marcello aprì molto più tardi, almeno alle 17, tant’è che Giuseppe Spiridigliozzi lo trova più tardi, dopo che alle 16,15 è passato, è andato ad Aquino ed è tornato. E che Giuseppe Spiridigliozzi sia passato perlomeno alle 16,15 è dimostrato dalla sua affermazione che prima di andare da Marcello cercò di acquistare a Pontecorvo dei panini: se i negozi aprivano alle 16, certamente Giuseppe non cercò panini a Pontecorvo prima di quest’ora e dun-que dovè passare da Marcello in un momento ragionevol-mente successivo alle 16. E fu allora che non lo trovò.
Quindi, sembrerebbe accertato anche che Marcello ha a-perto intorno alle 17.

Delle persone di famiglia, Tommaso aveva accompagnato la madre la quale aveva aperto la sua macelleria, Gaetano era andato a Cassino, la Siciliani ovviamente era in macel-leria, dunque l’unico che non ha un alibi è Marcello, che affetta il prosciutto a Giuseppe non prima delle 17 e –va aggiunto- batte scontrini solo dalle 17,33, forse per quell’avventore che stava nel negozio assieme a Giuseppe Spiridigliozzi. Ed è il primo cliente del pomeriggio. Alle 17.33.
Allora è confermato e resta provato che Giuseppe trovò Marcello solo dopo le 17, perchè entro le 17.33 Marcello aveva affettato il prosciutto e aveva dato 1200 lire di carne all’altro cliente.
L’alibi vorrebbe fornirlo Tommaso con la tardiva produ-zione della contabile bancaria, attestante un versamento di quel giorno. Ma è assolutamente implausibile che il ver-samento sia stato effettuato da Tommaso, con una contabi-le redatta da Marcello, per una serie infinita di motivi.
In primo luogo, Tommaso stesso ha detto che era Marcello ad occuparsi delle questioni amministrative della società; in secondo luogo, non si comprende l’urgenza di conse-gnare la contabile proprio quel pomeriggio, perché non sembra così importante.
Né Tommaso sa spiegare in cosa consistesse l’urgenza che lo condusse appena aperta la propria macelleria a lasciarla per andare da Marcello: sarebbe stato più logico che glie-la portasse semmai alla chiusura, che gliela desse quando era al macello, che la consegnasse alla madre. Addirittura a mia domanda lo stesso Tommaso conferma che sarebbe stato logico tutto ciò, perché, quanto meno, dopo aver ac-compagnato la madre, avrebbe dovuto fare solo una picco-la deviazione, andare da Marcello dopo aver lasciato la madre e i nipoti, e prima di aprire la sua macelleria. In-somma tutto sarebbe stato più logico, ammette Tommaso Spiridigliozzi, meno che andare da Marcello proprio alle 17.
D’altra parte non si vede l’utilità proprio in quel momento di una ricevuta di versamento di poche lire su un conto in rosso per oltre 5 milioni, come ci dice l’E/C prodotto dal PM. Non lo ricorda Tommaso, come non ricorda tante al-tre cose, tranne il fatto, da lui affermato di aver portata questa ricevuta.
Il terzo elemento che non convince è che la banca è a cin-quanta metri dalla macelleria di Marcello mentre da quella di Tommaso dista circa seicentometri, lo dice Tommaso stesso. E’ assolutamente illogico che di lunedì, giorno di mercato, che si tiene nell’adiacente piazza (teste Macon-neni), con difficoltà già normali di parcheggio (ancora il teste Maconneni), Tommaso sia partito dalla sua macelle-ria ad effettuare un versamento –ripeto- di poche lire, quando Marcello avrebbe potuto provvedervi agevolmente lui, perché ha la Banca a 50 metri, e poteva farlo o prima dell’apertura mattutina o alla chiusura antimeridiana. Gli sportelli bancari –si sa- chiudono intorno alle 13,30 men-tre gli esercizi commerciali chiudono alle 13. Quindi, Marcello poteva andare benissimo lui.
Ma v’è un altro elemento che potete ricavare dal giornale del registratore di cassa, dove avete gli scontrini del pome-riggio. Il documento riporta anche quelli del mattino nella colonna centrale –controllatelo- la mattinata si ferma a due scontrini delle ore 11.11.
Al di là del fatto che Marcello potrebbe non aver battuto gli scontrin successivamente, l’orario è significativo: è verosimile che Marcello dopo un po’, visto che non veniva più nessuno, sia andato effettivamente in Banca.

Ma lasciamo la ricevuta che mi sembra chiaro sia una bal-la altro è il dato ricavabile dagli scontrini che ci interes-sa.
Marcello Spiridigliozzi battè una serie di scontrini in se-quenza, tra le 17.33 e le 17.36, poi non ne battè più. Mar-cello ha riferito vari motivi, come la mancanza di merce, sui quali però mi soffermerò appresso.
Ora mi interessa una emergenza strana e perciò più impor-tante, alle ore 17.36, dopo quell’ultimo scontrino in quella strana sequenza, Marcello chiude la cassa. Se guardate al giornale del registratore di cassa lo vedete.
Voi avete non la fotocopia degli scontrini ma del giornale del registratore di cassa, che è un rotolo continuo distinto e diverso dal rotolo che stampa gli scontrini. Su questo secondo rotolo contemporaneamente alla stampa degli scontrini il registratore di cassa riporta le operazioni svolte che, oltre ai singoli scontrini, sono ad esempio le rettifiche e gli annullamenti e, soprattutto, a inizio e fine giornata su quel rotolo si stampano anche l’apertura e la chiusura del-la cassa.
Gli scontrini che avete non sono fotocopiati nell’ordine giusto ma al contrario da destra a sinistra.
A destra avete prima due scontrini di sabato 17 maggio, poi iniziano quelli del 19, alle ore 7,46; nella seconda co-lonna, quella centrale, avete gli scontrini sempre del 19, ma delle ore 11,11 e fino a quell’ora, per quanto riguarda la mattina.
L’imputato nella fase istruttoria, e avete le deposizioni, ha detto che aveva finito la carne, ma anche che il pomerig-gio, prima di aprire, era passato dalla madre a prenderne.
Ma dalle 17.33 alle 17.36, in tre minuti, batte sei scontrini, 1200, 1500, 1000, 1520, 4000, 4850, 7800, 7851, in tutto per circa 30.000 lire. Considerato il prezzo della carne all’epoca, Marcello non vendè più di due chili di carne e non si tratta di macinato, perché mancano i tempi tecnici fra uno scontrino e l’altro.
Ma il dato più interessante –l’ho appena ricordato- è che alle 17,36, appena battuto l’ultimo scontrino, nello stesso orario Marcello Spiridigliozzi ha stampato la chiusura, la vedete nella colonna a sinistra in alto, con un incasso complessivo del giorno di circa 100.000 lire.
Ora, anche l’uomo della strada capisce che la cassa si chiude quando si chiude il negozio. Allora, se è vero ed è provato documentalmente, che alle 17.36 l’imputato chiu-se la cassa, non può essere anche vero che chiuse il nego-zio, tornò a casa ed ebbe ancora tutto il tempo fino alle 19 e oltre per agire o completare l’opera? Salvo poi tornare in centro prelevare le figlie e tornare nuovamente a casa.
Marcello anche per questi orari ci fornisce un falso alibi, riferendo al PM che alle 19 andò a comprare delle cose al negozio di fronte, ma il titolare, quel Colella Marcello di cui abbiamo le s.i.t., perchè deceduto, ha riferito che anda-rono invece le bambine.
Ed allora dalle 17.36 alle 19.30 circa, ora in cui anch’egli ammette che il suo negozio fu definitivamente chiuso, che fece Marcello? Tornò a casa e uccise la moglie? O l’aveva già fatto tra le 16 e le 17?
Eppoi, perché quegli scontrini in sequenza.
In aula l’imputato li ha giustificati in modo diverso che in istruttoria; ha detto che preparò pacchetti già ordinati e perciò battè scontrini uno appresso all’altro. Non cambia granchè, se non che cerca di accreditare una versione di-versa dalle precedenti, generando una contraddizione, una delle tante come appresso vedremo, analizzando i suoi in-terrogatori. Ma comunque sia, ugualmente rimangono gli interrogativi: che fece dalle 17,36 in poi? e perché chiuse la cassa? Perché aspettava da un momento all’altro la fe-rale notizia o si ricavò il tempo di portarsi a casa, agire in-disturbato e tornare? Peraltro la sua presenza in casa non avrebbe destato particolare attenzione da nessuno, poichè era il padrone di casa. La normalità della percezione di chiunque è che si presta attenzione ad un estraneo, ma non si fa caso e non si conserva memoria di un evento che rientra nella normalità.
Ma c’è un dato di fatto incontrovertibile: Maria Celeste Spiridigliozzi Il 20 maggio 1997, oltre undici fa, quando sicuramente era in condizioni mentali migliori di quelle che abbiamo visto, riferisce: sono stata nel giardino a curare le piante non ho visto nessuna persona arrivare a casa né tantomeno rumori o urla.
Ma anche su questo torneremo poi. In questo momento ci basta aver fissato le certezze che Marcello fu l’ultimo a vedere la moglie viva, e non ha giustificato minimamente le sue azioni fra le 16 e le 17 e dalle 17,36 fino alle 19. Quindi, ebbe l’occasione di compiere il delitto.

Il movente
Il movente lo fornisce Dalina Jaupi Hassan.
Dalle parole della teste, seppure quasi estortele, è risultato che Marcello Spiridigliozzi coltivava una vera e propria passione travolgente, ma a lei non interessava granchè poiché ci ha detto che per lei era una storia qualsiasi.
Se mi si passa l’espressione, che rende meglio quanto ha riferito la signora Dalina, Marcello si era incanusito, come si dice in dialetto.
La passione di Marcello è evidente dai suoi comportamen-ti, dalla sua onnipresenza: a casa della donna, a Roma (e per andarci tiene chiusa la macelleria per una giornata in-tera), le fa il regalo di Pasqua (il cellulare), si telefonano continuamente, ogni sera e a casa, mentre Pina è in Ospe-dale.
Insomma tutte quelle attenzioni che acutamente e attenta-mente ha analizzato il Pubblico Ministero e che non ripe-terò. Quindi Marcello compie una sequenza di atti in un periodo ristretto –da marzo, ci ha detto Dalina cominciò la storia e fino alla morte di Pina- che hanno un chiaro signi-ficato.
Ma sono i suoi comportamenti successivi alla morte di Pi-na ad essere più eloquenti ancora. Addirittura va a impor-tunare Dalina ad Alessandria, dove si era rifatta una vita, tanto da costringerla – è lei che lo riferisce- a minacciarlo di parlare al PM dott. Arcuri. E solo allora Marcello la smette. Si era proprio fissato per lei!
Ma guardiamo anche indietro. Dalina riferisce che rivelò a Marcello, prima che Pina morisse, l’intenzione di tronca-re la relazione perché lui era sposato.
Pina li sorprese nella macelleria e a Dalina venne eviden-temente un rigurgito di coscienza, un afflato di dignità e decise che era il caso di smettere, di troncare.
Marcello insisteva, ma sappiamo che Dalina se ne andò comunque.
Ora, la deposizione di Dalina ci rivela non un indizio, ma un fatto: Marcello si recò ad Alessandria dopo la morte di Pina, proprio perchè voleva riallacciare i rapporti, ora che finalmente si era liberato della moglie scomoda, la cui presenza –è nel racconto di Dalina- era stato il motivo ad-dotto da Dalina per troncare la relazione.
Che Dalina riferisca di essersi trasferita perché Pontecorvo non le offriva niente è recondito motivo della donna, ma certamente Marcello dovè recepire quella partenza come una fuga per mettere distanza fra loro.
Quindi, più che plausibile che Marcello avvertisse che la scomparsa della moglie aveva eliminato ogni ostacolo alla relazione ed è per rappresentare questo a Dalina che va più volte ad Alessandria. Dalina non lo dice apertamente, ma se Marcello tentò di riallacciare il rapporto, evidentemente la scomparsa di Pina era ciò che gli faceva confidare nell’assenso di Dalina, altrimenti non avrebbe avuto senso che andasse ad Alessandria. Dalina se n’era andata perché c’era Pina, ora Pina non c’è più, possono ricongiungersi.
Ho detto che Marcello era totalmente preso da Dalina, Non è un’illazione, è provato. E’ provato dal fatto che si recò ad Alessandria non una, ma più volte, nonostante Da-lina nel frattempo avesse un altro uomo, con cui ha poi de-finitivamente messo ordine nella sua vita sentimentale. Ma a Marcello non importa, insiste fino a quando Dalina non lo minaccia di parlare con Arcuri.
Ma cosa voleva riferire Dalina al dott. Arcuri? la petulan-za sentimentale di Marcello? E che interessava al dott. Arcuri? Dalina non è una stupida ignorante, è una persona di media cultura, ci ha tenuto a farci sapere che lavora per la Procura e che il fratello è medico. Dunque, quando mi-naccia Marcello di parlare al dott. Arcuri non è la voce dell’ignorante, non è il quidam de populo che ai tempi di Tangentopoli minacciava di scrivere a Di Pietro per un problema di molestie, è una persona che evidentemente ha in corpo qualcosa che qui non ci ha detto e che ha a che fare con il delitto e che minaccia di riferire al dott. Arcuri. Ed è talmente convincente quest’argomento, che Marcello sparisce dalla sua vita.
Non ha un senso? Ben altro dovè dire Dalina che avrebbe rivelato ad Arcuri perché Marcello frenasse i suoi ardori dopo che si era recato due volte ad Alessandria ad insiste-re.
E il riscontro di questa –per me- certezza è nel fatto che quando la relazione diventò di dominio pubblico, nemme-no Gaetano Spiridigliozzi suo padre, riuscì a fermarlo. Eppure i due ebbero un violento litigio –lo riferì Pina- in cui Gaetano prese il figlio a schiaffi, lo sbattè al muro, minacciò chissà che cosa, gli disse che non avrebbe sop-portato che lui facesse come il proprio padre, che aveva abbandonato la famiglia per un’altra donna. Ma Marcello non si convinse; dunque, per convincersi davanti alla mi-naccia di interessare il PM che aveva in carico l’indagine, doveva esserci qualcosa di molto importante.

Ed ancora, la travolgente ed irrazionale passione di Mar-cello per Dalina traspare da un’altra circostanza, risultata da varie testimonianze, cioè che Marcello, nonostante la moglie fosse ingessata e dunque sostanzialmente inabile, avesse prospettato il divorzio, più verosimilmente la sepa-razione consensuale, che Pina non intendeva concedere.
Ad una donna che sta male, è ingessata, una persona che abbia una razionalità non alterata -e quella di Marcello è evidentemente alterata dalla passione per Dalina- non a-vrebbe prospettato proprio in quel momento una decisione così grave. Ma Marcello ha fretta, perché Dalina sta per andarsene e lui deve trattenerla. Eppoi, forse anche Gae-tano si sarebbe arreso se la separazione fosse stata consen-suale, cioè l’avesse chiesta anche Pina, cosicchè Marcello, secondo un copione che da tempo sperimentava, avrebbe scaricato su Pina, quella pazza incontrollabile, la respon-sabilità della fine del matrimonio e dunque lo avrebbe in qualche modo autorizzato anche agli occhi del padre al rapporto con Dalina.
Mi sembra dunque che il movente che risulta da questa analisi sia più che plausibile più che realistico: Marcello è pazzo di Dalina la quale lo lascia perché è sposato, dunque deve eliminare la moglie per avere Dalina.

Pina è pazza. E’ il refrain che Marcello adopera ormai da tempo con costanza: quando Pina va in chiesa troppo spesso, quando Pina lo accusa di avere amanti, quando Pi-na lo accusa di volerla uccidere. E poi dopo la morte, Marcello fa apparire a tutti che Pina non è sana di mente perché voleva fare la doccia, il bagno o cosa pur avendo due gessi e non riuscendo a muoversi.
Ma Pina non è pazza. Avete la documentazione che vi ha prodotto il PM, quella del Centro di igiene mentale, vi prego di leggerla attentamente perché vi spiegherà la vera condizione di Pina.
Pina era solo depressa.
Faccio una piccola digressione. Dico solo depressa, perché un depresso non è pazzo, è malato sì, ma non pazzo. Bi-sogna distinguere nell’accezione comune di follia, coloro che sono affetti da malattie mentali da coloro che sono af-fetti da malattie neurologiche. Chi è pazzo è malato nel cervello, chi ha una patologia neurologica, quale può esse-re la depressione, o gli attacchi di panico, ha il cervello a posto, ha solo il sistema neurovegetativo che non va.
Chi è pazzo è folle, è psicotico, chi è depresso è solo ne-vrotico.
Non impressioni questa parola, nevrotico. Nevrotico è chi ha disturbi dell’umore, non della mente. Può deviare il fatto che Pina abbia tentato il suicidio, ma è possibile in un soggetto affetto da depressione.
La depressione non è altro che un calo molto significativo dell’umore che ha un elemento scatenante in un fatto, in un vissuto, anche inconscio, avverso il quale l’organismo, non la mente, reagisce causando abulia, mancanza di vo-glia di fare, di esserci, di vivere, toglie prospettive, fa ve-dere tutto nero e può venir voglia di farla finita.
Ma non è il cervello è il sistema nervoso. Tant’è che la te-rapia si fa con antidepressivi, non con psicofarmaci.
Degli psicofarmaci riferisce solo Marcello, alludendo al Tavor, che non è uno psicofarmaco, ma benzodiazepina, un tranquillante. E’ il dottor De Falco –teste della difesa- a confermarlo. Prescriveva anche Farganesse e Prozac che sono tipici antidepressivi, privi di controindicazioni sulla mente.
Gli antidepressivi servono solo a incrementare la quantità di neurotrasmettitori utilizzabili dai recettori cerebrali, ad alzare il tono della serotonina, l’ormone della serenità, ed è lo stesso tipo di farmaco che si prescrive per gli attacchi di panico, perchè la matrice è la stessa. Così pure gli an-siolitici, servono solo a contribuire alla serenità, non ser-vono ad ottenebrare il cervello, come gli psicofarmaci veri e propri. Insomma, il depresso è pessimista, abulico, au-todistruttivo, ma non pazzo.
Ai pazzi si danno i neurolettici, Aloperidolo, Antensol, Ensulid, Haldol, Prozin, Serenase, Talofen, gli antipsicoti-ci, i sedativi, che non hanno funzione terapeutica, ma con-trollano i sintomi della pazzia; i neurolettici sono usati per contenere persone che vengono definite "schizofreniche", "psicotiche", "maniaco depressive", "paranoiche", cioè sopprimono i sintomi: confusione, deliri, allucinazioni, eccitabilità, ansia estrema, aggressività. Non "curano" nulla, inibiscono solamente.
Ma Pina non delira, non sente le voci e non vede chi o co-se che non ci sono.
Pina è una depressa bipolare, ossia alterna momenti di ipe-rattività a momenti di abbattimento, momenti di esuberan-za a momenti di assoluto immobilismo. E questo trova ri-scontro in quello che hanno riferito i testi, le sue amiche, nel dire che Pina era superimpegnata in tante attività: nel coro, nel dare una mano a tutti, era tanto disponibile, ma alle volte piangeva, piangeva a dirotto e non si sapeva perché. Aveva i lividi, ma non si poteva sapere come se li era fatti.

E qui subentra un altro atteggiamento del depresso: il de-presso nutre sentimenti di autosvalutazione oppure senti-menti eccessivi di colpa; si sente incapace e iperrespon-sabile anche di eventi negativi sui quali non ha la minima influenza né alcun potere di intervento. Marcello è buono, ha tante attenzioni per me. Suor Fortuna non mente, suor Fortuna ha sentito Pina dire queste cose, ma non era Pina a parlare erano i suoi sensi di colpa, la disistima per sé che le faceva subire in silenzio quello che Marcello le faceva e anzi lo riteneva giusto nella sua malattia.
Il depresso subisce anche diminuzione di piacere per tutte o quasi tutte le attività (si chiama anedonia, dal greco, ne-gazione del piacere). E Pina manifesta i sintomi di una anedonia fisica, cioè la mancanza di piacere nel curare sé stessa, nel piacersi. Pina non si curava, non si depilava, era trasandata. E l’anedonia è sintomo accessorio della depressione.
Quindi, Pina non era pazza era depressa.
Vi ho detto di leggere la cartella clinica perché lì c’è la spiegazione della sua depressione: Pina è maltrattata ed è maltrattata da Marcello.
La violenza familiare può concretarsi in diverse manife-stazioni: violenza psicologica, fisica, economica, sessua-le, Stalking (ricordate gli squilli anche di notte?)
Tutti questi comportamenti concorrono nel loro insieme a produrre un danno, un danno tanto più irreversibile quan-to:
• più la violenza si protrae nel tempo; e sappiamo che Pina dal 1994 accusava depressione
• più esiste consanguineità e prossimità tra aggressore e vittima; sono moglie e marito;
• più la vittima è isolata da una rete relazionale; Marcello, nonostante invitato dai medici di Roma a far distrarre Pi-na, non lo fa.
Faccio una digressione nella digressione. Più del 90% de-gli incidenti domestici sono crimini commessi contro una donna. L’Unicef nel 2001 ha calcolato che in alcuni paesi metà di tutta la popolazione femminile ha subito violenza fisica per mano del compagno o di un membro della fami-glia. Secondo l’OMS tra il 10% e il 69% delle donne (a seconda della nazione) sono oggette di violenza da parte del partner.
Elementi sintomatici della violenza coniugale sono
- il prolungarsi delle relazioni; Pina restò a casa con il marito nonostante stesse male
- la vergogna delle donne per la situazione che vivono e quindi la reticenza rispetto anche all’evidenza; Don Dui-lio è preciso su questo punto, Pina non gli parlava dei rap-porti con il marito, anzi lo copriva.
- le donne non hanno il coraggio di rompere una relazione ambivalente (caratterizzata da violenza e dall’amore verso il partner violento). Solo alla madre, e solo dopo l’incidente evidentemente convintasi che Marcello la vo-lesse eliminare Pina dice di voler tornare dai genitori
Questo comportamento delle donne maltrattate trova spie-gazione psicologica nel fatto che la società ha sempre as-segnato alla donna (moglie e madre) la responsabilità dell’armonia familiare: il peso di questa eccessiva respon-sabilizzazione –unito ai rinforzi provenienti da amici e pa-renti– costituiscono il fattore saliente nella decisione della donna di restare in silenzio e di non denunciare gli abusi subiti.
E’ il quadro di Pina: tre figli, la famiglia, la madre e suor fortuna che la spingono a sopportare perché poi si aggiu-sta; quindi i lividi e le percosse mai denunciati né confes-sati neanche alle amiche; le violenze psichiche che si ver-gogna di riferire.
La violenza domestica si concreta con meccanismi inva-riabili:
1. l’Intimidazione: marcello la prevarica, non le da soldi, minaccia di lasciarla per strada; leggete anche gli altri comportamenti che Pina riferisce al CIM;
2. l’Isolamento: marcello si lamenta che Pina frequenta la chiesa e la corale fino a quando Pina si limita e si isola
3. la Svalorizzazione: sei pazza
4. la Segregazione: pina non usciva quasi mai, specie dopo il tentativo di suicidio, eppure i medici avevano racco-mandato a Marcello di farla svagare
5. la Violenza fisica: lo abbiamo detto
6. la Violenza sessuale: non lo sappiamo
7. le False riappacificazioni: Marcello alle volte la aggre-diva, ma poi aveva gesti gentili, lo riferisce Suor Fortuna
8. il Ricatto sui figli: dammi il divorzio o ti levo i figli, smettila di fare la pazza o ti levo i figli
L’obiettivo di chi mette in atto questa spirale è garantire il proprio status quo, relegando la donna in uno stato di su-balternità, per conservare il potere e l’esercizio del con-trollo.
E cosa accade alle donne vittime di violenza:
- sul piano psichico: depressione, senso di colpa e vergo-gna, ansia, bassa autostima; Pina!
- sul piano fisico: traumi dagli esiti più o meno reversibili, cicatrici, danni permanenti alle articolazioni, disturbi del sonno;
- sul piano materiale e relazionale: perdita del lavoro, della casa e di altre eventuali proprietà (Marcello la escluse dall’intestazione della casa nuova), isolamento, perdita di relazioni amicali, assenza di comunicazione e di relazioni con l’esterno.
E’ Marcello che ha ridotto Pina così; c’è scritto nella car-tella clinica del CIM.

Ma giocando sul luogo comune Marcello Spiridigliozzi vuol far sembrare a tutti che Pina invece è pazza. Soprat-tutto ai figli, che fin all’altr’anno –ce lo hanno detto Davi-de e Letizia- non hanno saputo che la madre era morta ammazzata, e Marcello aveva loro propinato la versione che Pina, in preda ad una delle sue manie, si era voluta la-vare da sola ed era scivolata. Ci ha detto Letizia che que-sta versione l’ha saputa da papà.
Ma perché non dire ai figli la verità? Si può capire quan-do erano piccoli, ma poi? Ora Davide ha ventitre anni, Letizia poco meno. Ci hanno detto che non si è parlato più in casa di Pina.
Dissento dal PM che questo è avvenuto per disistima, per sprezzo: è stata invece a mio modo di vedere una precisa volontà di Marcello Spiridigliozzi di evitare che ai figli potesse venire in mente di capire e scoprire la verità.
Ragioniamone insieme: muore un familiare così stretto come la madre, ammazzata, e nessuno della famiglia Spi-ridigliozzi vuol sapere.
Ma i figli? I figli, se avessero saputo, non avrebbero volu-to capire? E se fosse loro venuto il dubbio, avrebbero avuto remore nell’accusare il padre? Loro sapevano, loro sapevano e sanno come sono andate le cose, i tempi, chi e quando è uscito di casa.
Ma Davide, l’unico che poteva ricordare e che al PM ave-va detto di aver mentito nella prima versione, davanti a voi ha preferito non ricordarselo. E noi vogliamo credere che sia così? No senz’altro, E allora perché l’ha fatto? Perché Davide ha taciuto? la risposta è nell’intercettazione ambientale di Letizia, la quale, messa davanti all’evidenza dalla zia Angelica, risponde: ma papà ci ha cresciuti.
Sì, i figli di Marcello sono cresciuti e dopo dieci anni non vogliono più sapere, hanno cancellato. Marcello ha vinto impedendo loro di esercitare quel naturale diritto/dovere morale di sapere e cercare e ricordare e verosimilmente accusare chi ha ammazzato la propria madre.
Accusare come hanno fatto tutti, ma fuori di quest’aula. E non mi riferisco alle deposizioni davanti al PM, che qui non hanno ingresso, ma alle intercettazioni ambientali che abbiamo visto e sentito insieme, da cui emerge prepoten-temente che c’è stato un generalizzato comportamento omertoso.
Costantini Concetta addirittura paragona la cosa all’ambiente mafioso, alla Sicilia, tutti sanno, ma nessuno parla; Don Duilio qui si è trincerato dietro un’incomprensibile opposizione del segreto, ma nella sala d’aspetto dei Carabinieri non esita a dire che deve passare da una famiglia di Pontecorvo a suggerire di scrivere una lettera anonima, non esita a riferire che a qualcuno non ha dato l’assoluzione. Ma qui dentro no, non parla. Fortuna-tamente le intercettazioni parlano per lui.
E Don Bruno? Ha detto a tutti che ha visto Marcello con le mani alla gola della moglie, ma qui smentisce e par-zialmente si trincera anche lui dietro al segreto.
Ma quelle risultanze restano: è un fatto che Letizia faccia mostra di non voler dire o sapere com’è morta la madre, perché il padre l’ha cresciuta; resta un fatto che Don Bru-no abbia visto Marcello con le mani alla gola della moglie; resta un fatto che Don Duilio non ha assolto qualcuno.

Gli altri testi sono reticenti, palesemente reticenti e lo di-mostrano le tante contestazioni cui ci hanno costretto, i non ricordo, i se l’ho detto sono stato capito male, fino a insinuare che Carabinieri e PM abbiano redatto verbali falsi.

Per questo motivo, non ripercorrerò le testimonianze rese in quest’aula, perché palesemente omertose, reticenti, mi è sembrato veramente di celebrare un processo di mafia. Quel che dice il PM è vero: in istruttoria molti hanno detto cose e fatti che qui non hanno riferito. Vi lascio alla con-siderazione di quanto ha riassunto il PM, che non ripeterò, se non per qualche riferimento, perchè non ho bisogno di non ricordo o non saprei. Le prove in questo processo esi-stono, ma sono emerse fuori di quest’aula, perché solo fuori di quest’aula v’è stata sincerità, schiettezza, non c’è stata omertà, perché fuori dell’aula non si è avuto il timore della sacralità del processo.
Per questo preferisco soffermarmi su quello che non si è sentito qui dentro ma a vario titolo fa parte dell’incarto processuale. Lo faccio con lo spirito di aiutarvi nella let-tura collegiale della Camera di consiglio.
Comincio da Maria Celeste Spiridigliozzi che è stata senti-ta due volte, a maggio, il giorno dopo il fatto, e a settem-bre 1997.
Maria Celeste Spiridigliozzi, nella seconda escussione, ri-ferisce che Pina si era impegnata a chiamarla alle 19 per andare ad una funzione religiosa. Questa testimonianza ha indotto poi evidentemente l’imputato e i suoi parenti a so-stenere che Pina volesse andare anche lei a vedere la Ma-donnina. Ma non dobbiamo farci fuorviare.
Maria Celeste riferisce esattamente: ero rimasta d’accordo con Giuseppina che prima delle 19 mi a-vrebbe chiamato in modo tale che potevo cambiarmi e recarmi alla funzione”. lei, maria celeste, non pina. E questo è un primo punto, che la dice lunga sulla manipola-zione da parte degli Spiridigliozzi, perchè solo dopo que-sta deposizione viene fuori, quasi a confermarla, che Pina voleva uscire anch’ella.
Ma non basta!
Visto che Pina non mi chiamava, e dunque dovevano esse-re le 19 passate (se alle 19 doveva chiamarla), sono torna-ta a casa e ho incontrato Gaetano, non ricordo se sulle sca-le o in cortile. Dopodiché Maria Celeste dichiara di essere entrata nel bagno e si accorge che Pina è a terra, con quel che ne segue.
Una domanda mi pongo e vi dovete porre, anzi quattro (che non abbiamo potuto fare): ma perché mai Maria Ce-leste entrò nel bagno di Pina se, vivendo con Gaetano, e-videntemente si serviva del bagno dell’altro appartamen-to?
Seconda domanda: come mai lei vede la sedia fra lavandi-no e bidet e non la vede più nessuno in seguito?
Terza: non ha sentito l’acqua scorrere? non ha visto l’acqua per le scale?
Quarta: come mai si sofferma a raccogliere la lametta e nota che sulla stessa vi erano dei peli. Ma non si accorge che Pina è fracassata, tanto che dichiara “immagino che sia morta a seguito di una caduta accidentale”?
E infine, ha visto Gaetano, ma Gaetano non era in macel-leria dalla moglie?
Se questa deposizione postuma si compara a quella del 20 maggio il quadro di bugie, reticenze e costruzione delle prove appare chiarissimo. Secondo la prima versione di Maria Celeste Spiridigliozzi: i familiari sono usciti tutti al-le 17, l’ultimo è stato mio figlio Gaetano, dice. Non è ve-ro perché a quell’ora la teste Avallone lo dà a Cassino.
Contrariamente a quanto dirà a settembre, il 20 maggio, il giorno dopo l’omicidio, -attenzione è importante-, affer-ma: sono stata nel giardino a curare le piante non ho visto nessuna persona arrivare a casa né tantomeno rumori o urla. E’ ben diverso dalla correzione di rotta o-perata a settembre dove inizia con una cosa assurda: “In-sospettita dal fatto che non vedevo Giuseppina” scusate ma dove la doveva vedere, nel giardino? Ma se non si po-teva muovere- “verso le 19,15 mi sono recata nel suo ap-partamento e lì aperto il bagno l’ho trovata per terra”.
Gaetano non c’è, di Gaetano Maria Celeste farà menzione solo nella seconda deposizione, mentre c’è già la sedia a rotelle che non vedrà nessuno. E Pina è nuda.
Nella prima versione Maria Celeste non vede né raccoglie il rasoio, non nota nulla se non una grossa macchia di sangue che poi asciugherà Marcello, ed il rubinetto della vasca aperto con l’acqua che tracima.
Non devo nemmeno fare confronti, li farete voi in Camera di Consiglio.
L’unico fatto utile che possa essere una prova, quantunque negativa, è che nell’immediatezza, al di là di tutte le bu-gie, Maria Celeste dichiara che quel pomeriggio nessuno è entrato in casa. Quindi, nemmeno il supposto estraneo, vi-sto che lei era in giardino, non nell’orto, che menzionerà invece la seconda volta.

E sono ancora i testi che non hanno deposto in quest’aula a darci un contributo alla ricostruzione dei fatti.
Colella Araldo o Eraldo l’8/7/1997 dice che, contraria-mente alle sue abitudini, Marcello quella sera alle 19,40 già aveva chiuso mentre di solito chiudeva alle 20; ma il 13 aprile 2007 al Maresciallo Maconneni riferisce anche che alle 17-17,30 Marcello non aveva ancora aperto tanto che commentò il fatto con Di Costanzo Guido ed è certo dell’ora perchè alle 18 andava a messa e dunque doveva aveva lasciato il negozio del figlio poco prima, notando che la macelleria era chiusa.
Il figlio Colella Marcello riferisce che le figlie di Marcello Spiridigliozzi alle 19 andarono nel suo negozio a fare spese, smentendo Marcello che invece sostiene di essere andato lui, come vedremo ora.
Cosa emerge: Marcello aprì in ora assai più prossima alle 17,30 che non alle 17 e se ne andò inspiegabilmente pre-sto, senza che nessuno abbia potuto vederlo da quando a-prì fino a quando chiuse. Ha tentato un alibi per quel po-meriggio, ma non c’è riuscito.

Ma è anche dalle deposizioni dello stesso Marcello Spiri-digliozzi, acquisite al fascicolo del processo, che proven-gono non illazioni, ma prove.
il 20/5/1997 a Roma comincia subito a riferire l’incredibile.
Dichiara che Pina aveva preparato il sugo, fatto assoluta-mente fantasioso, perché Davide ci ha detto che erano altri familiari a cucinare: la madre non poteva neanche pren-dersi un bicchiere da sola.
Alle 16,30 Marcello dichiara di essere uscito di casa e che la moglie gli avrebbe detto di voler fare toeletta; Marcello comincia ad accreditare la versione dell’incidente.
E il fatto che lui le avesse consigliato di aspettarlo –attenzione, inizia il depistaggio- dice Marcello è perché “il giorno precedente stava per scivolare in bagno dato il pa-vimento liscio”.
Ancora, riferisce, Quando è uscito s’è portato Letizia e Chiara, mentre Davide era andato con Tommaso e la Sici-liani. ma Davide ci ha riferito diversamente e cioè che una delle sorelle andò insieme a lui alla macelleria della non-na.
Comunque, è già un fatto ammesso che la Siciliani e Da-vide uscirono prima di Marcello, alle 16, insieme a Tom-maso e con loro –aggiunge Davide- c’era Letizia. Chiara, Davide l’ha rivista la sera. Infatti, aggiunge Davide che il padre arrivò da solo alla macelleria della nonna.
Quel pomeriggio –è sempre Marcello alla Polizia di Ro-ma- sono andati alcuni clienti abituali, e, cito testualmen-te, “i cui scontrini fiscali fanno fede”. Ma il primo scon-trino –lo abbiamo visto- è delle 17,33 e ce ne sono ben sei, di seguito, alle 17.36, dopodichè –abbiamo visto pure qu-sto- Marcello chiude la cassa.
Quanto al ritrovamento di Pina, Marcello dichiara di aver-lo appreso a casa quando trova una folla che gli dice “è accaduta una disgrazia”, quindi non lui ma altri hanno suggerito l’incidente domestico. La moglie non era nuda, ma indossava i pantaloni del pigiama abbassati al ginoc-chio, con della crema sul pube che ha visto solo lui.
E’ il depistaggio della depilazione.
Notavo sulla fronte una grossa ferita e una più piccola ma un’enorme quantità di sangue le copriva il volto, E da questo gli sembra che Pina sia solamente caduta?
Il 17 giugno Marcello nega rapporti con Dalina dà una versione incredibile del viaggio a Roma, riferendo che vo-leva portare anche Pina, ma sappiamo da altre fonti che invece Pina fu molto contrariata da quel viaggio.
Viene fuori per la prima volta la faccenda del divorzio, ma era uno scherzo, secondo la versione di Marcello. Anzi, quel pomeriggio del 19 maggio, ebbe un rapporto sessuale con la moglie, al primo giorno di ciclo. Non lo ripeterà più e non commento: ricordo solo che Pina aveva il brac-cio destro ingessato, la gamba sinistra ingessata e, se si doveva lavare e depilare, beh lascio a voi trarre conclusio-ni. Comunque, Marcello non insisterà più su questo parti-colare.
Ma aggiunge che praticò a Pina un massaggio cardiaco e le soffiò aria in bocca. Eppure, non si sporcò, nonostante tutto quel sangue tanto che, come vedremo in successive sue deposizioni, non ritenne nemmeno di cambiarsi prima di andare in ospedale.
il 31/3/1999 Marcello conferma di essere uscito alle 16,30 subito dopo il fratello Tommaso, che però dice di essere uscito alle 16, quindi Marcello non uscì per sua stessa ammissione subito dopo; ribadisce che portò Letizia e Chiara E qui dopo due anni viene fuori la ricevuta banca-ria che avrebbe dovuto ritirare dalla madre, motivo per il quale, prima di andare alla sua macelleria, passa appunto da quella della madre. Conclude –sempre Marcello- che alle 17 il negozio era già aperto. Ma abbiamo letto che Colella Eraldo lo dà ancora chiuso a quell’ora e probabil-mente anche dopo, e comunque il primo scontrino, quello che secondo la prima deposizione doveva dar prova della sua presenza in macelleria, è delle 17,33.
Interessante è notare che il PM in quell’occasione contesta a Marcello che la madre ha dichiarato che con Tommaso e Davide c’era anche Letizia, ma lui ribadisce che le figlie femmine stavano con lui. Al che il PM gli contesta che pure Gaetano ha riferito la stessa cosa, ma Marcello è ir-removibile. Eppure Davide ci ha qui confermato che Marcello arrivò da solo alla bottega del nonno.
Nella stessa occasione Marcello riferisce di essere andato all’alimentari di Colella Marcello, ma abbiamo visto che questi disse che c’erano andate invece le bambine.
Quanto alla richiesta di separazione, Marcello la ammette, ma riferisce ancora una volta che era uno scherzo e mini-mizza la versione dei fatti data da Padre Bruno, in quanto lo indica come un mezzo alcolizzato tant’è che Pina si confidava con Don Duilio, il quale però ci riferisce –l’ho già ri-cordato- che Pina non gli parlava del marito, anzi lo copriva.
il 16/6/1999 Marcello conferma ancora una volta che uscì di casa alle 16,30 con Chiara e Letizia, Aprì alle 17, però c’è una novità: la ricevuta bancaria non la ritira più dalla madre, ma gliela porta in negozio il fratello Tommaso. Alle 17,30 va Spiridigliozzi Giuseppe.
Ancora riferisce Marcello che dopo aver soccorso Giusep-pina non si cambiò –l’ho preannunciato- perché non era così sporco da richiederlo. Ma –dico- com’è possibile, ha tentato di rianimarla, l’ha toccata energicamente facendole il massaggio cardiaco in un lago di sangue e acqua, le ha soffiato aria in bocca e non si è sporcato?
E c’è un’altra incongruenza. Marcello aveva precedente-mente parlato di pigiama abbassato, Davide, che è arrivato in bagno prima di lui ha visto la madre con un accappa-toio, e ora, invece, Marcello la descrive nuda tanto che fu coperta con un asciugamani da Spiridigliozzi Maria. Ma asciugamano e pigiama non esistono, l’accappatoio esiste: fa parte delle cose sequestrate il 20/5/1997, un accappa-toio di colore chiaro intriso di sangue.

Ma c’è anche un altro fatto da considerare: la void area, cioè l’assenza di schizzi di sangue sui gessi, conferma che Pina fu uccisa vestita, quindi fu spogliata dal suo assassino prima che Marcello arrivasse con Davide. E perché? Un maniaco? Un feticista, che porta via il pigiama della pro-pria vittima? Eppoi togliere il pigiama a Pina inerte in quel bagno così stretto non dovè essere un’operazione a-gevole e veloce: un estraneo non si sarebbe certo attarda-to, solo chi era della famiglia ed aveva motivo per stare lì avrebbe potuto farlo. Lo vedete un estraneo che già ha avuto la fortuna di non essere visto entrare nel viottolo sterrato e tortuoso da Via Ravano e poi non è stato visto entrare nella casa nonostante le due vecchiette, special-mente Maria Celeste che sta lì vicino all’ingresso, tanto da escludere che sia arrivato qualcuno, e nonostante i clienti che portano le bestie al macello, ebbene questo sconosciu-to che ha già avuto una grande fortuna tre volte si mette a perdere tempo a spogliare Pina, prima di scappare? E’ as-so-lutamente impensabile.

Ma ancora.
Tutti hanno capito solo vedendo Pina, anche per pochi i-stanti, che non poteva essere semplicemente caduta. Lo hanno capito tutti! Eppure Pina, oltre la nonnina che l’ha trovata nel bagno, è stata vista bene solo dai barellieri e dai medici del Pronto Soccorso, gli altri, che si sono resi conto che era stata picchiata, l’hanno vista per qualche se-condo o sulla barella o mentre la caricavano in ambulanza a casa o mentre la ricaricavano per portarla a Roma. Solo don Duilio l’ha vista bene, ma all’obitorio.
Chi l’ha vista meglio e accuratamente è Marcello Spiridi-gliozzi: possibile che lui solo non si sia accorto e abbia in-dotto tutti, Carabinieri compresi, a credere che fosse cadu-ta?
Ci hanno descritto in molti, Davide compreso, che all’epoca aveva solo 12 anni, che Pina aveva la faccia gonfia, che presentava tagli multipli al viso e al capo, era tumefatta, aveva segni alla gola. Suor Fortuna crudamen-te, ma rende molto bene l’idea, ci ha detto che sembrava un porco.
Marcello mostra di non essere uno sprovveduto, tant’è che per aiutare la moglie a respirare –lo ha detto proprio lui- le ha ficcato le dita in gola quasi a levarle i grumi, ha prova-to anche una sorta di massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca. Possibile che nella sua pur superficiale competenza non abbia capito che la moglie era stata pic-chiata? Possibile che pur avvicinandosi alla bocca della moglie, non ha notato i segni dello strangolamento?
Incongruente è poi che a tutti Marcello abbia detto che Pi-na era caduta cercando di lavarsi, ma non ai familiari stret-ti di Pina, ce l’ha ricordato il PM: e come poteva amman-nire a Maria D’Annolfo e ad Enzo Zanni la versione del bagnetto, quando questi sapevano benissimo che la figlia non si poteva muovere. Ma lo sapeva anche lui: Davide ci ha detto che la madre usava la pala per i bisogni e si la-vava solo quando c’era qualche parente che l’aiutava, “qualcuno la doveva aiutà”, ci ha detto Davide. Come po-teva pensare Marcello che addirittura si fosse andata a la-vare e a depilare?
Una piccola annotazione a proposito della depilazione: non è stato mai provato che i peli sul rasoio fossero di Pi-na, lo riferisce la d.ssa Vecchiotti nella perizia del 13 no-vembre 1997.

Non voglio ripercorrere le tesi del PM circa l’incomprensibile lentezza di Gaetano ed Elisa nel chia-mare l’ambulanza, addirittura Gaetano è ancora lì nono-stante sia stato avvertito dalla nipote, e risponde prima al tel a Davide che lo chiama al bar vicino la macelleria, e poi va a piedi al Pronto Soccorso.
Ma non voglio meditare su questo l’ha già fatto il PM Vo-glio pensare ai mesi successivi.
Nessuno della famiglia Spiridigliozzi ha fatto niente per sapere, scoprire, eppure due mesi dopo era chiaro che Pina era stata ammazzata. E’ stato un estraneo? neanche que-sto dicono. E se pensavano che fosse stato un estraneo, nemmeno hanno cercato di sapere chi, come in che modo fosse penetrato in casa; non chiedono nemmeno alla vici-na Maria Giovanna che sta tutto il giorno davanti casa a prendere il sole.
C’è gente che chiama chi l’ha visto, pubblica annunci sui giornali, affigge manifesti per strada; gli Spiridigliozzi no. Si chiudono a riccio e negano, evidentemente per loro è sufficiente piangere alle 8,30 di sera, nemmeno durante il giorno, perchè devono lavorare. E’ tutto più importante.
Ma è solo più importante? O devono spegnere i riflettori per paura che si scoprano i loro scheletri nell’armadio?
E c’è un’altra incongruenza.
Spiridigliozzi Gaetano avrebbe riferito a Zanni Enzo An-tonio di aver sentito l’acqua scorrere già alle 4 e mezza: ma Gaetano non era andato a Cassino dal commercialista a quell’ora?

Eppoi l’accappatoio che ha visto Davide. Esiste veramen-te, fa parte delle cose sequestrate, ve l’ho già ricordato. Copriva Pina.
L’accappatoio che copre Pina accusa Marcello.
Si chiama negazione psichica, è una forma di pentimento che si manifesta con il gesto di coprire la vittima quando la si conosce. E’ questa la spiegazione del criminologo Carmelo Lavorino al fatto che gli assassini di Perugia, quelli che uccisero Meredith Kercher coprirono la vittima con una coperta, ed è la stessa spiegazione che dà sul len-zuolo che copriva Samuele, il bambino di Cogne.
In questo senso potremmo anche spiegarci il motivo per cui Marcello copre Pina, nega l'atto con se stesso e co-munque assume, subito dopo l'omicidio, un comportamen-to assolutamente normale.
E inventa la bugia, grossa, incredibile. Forse Marcello ha letto Gore Vidal, scrittore ed intellettuale americano, che nel suo saggio the enemy within, sostiene che più una bu-gia è grossa, più facilmente verrà creduta.
Ma andiamo oltre.
Noi non sappiamo esattamente quando Pina è stata stran-golata. Ma sappiamo dalle deposizioni di chi era presente all’arrivo di Marcello che egli si chiuse in bagno con Pina agonizzante alcuni minuti, in cui egli dichiara che tentò di farla respirare. Ma tre o quattro cose non convincono qualche teste ci ha detto che le mise le mani alla gola per farla respirare, operazione alquanto strana, perché le mani alla gola chiudono piuttosto che aprire la trachea.
Non fu allora, in quel momento, che Marcello, trovandola inaspettatamente viva, strangolò Pina o provò a farlo? Non è impertinente ricordare che la sorella di Marcello il giorno dopo disse: non è che avendo visto Marcello con la mani alla gola di Pina pensi che l’abbia strangolata? Perché Paola tenne a fare quella precisazione? Nessuno in quel momento sapeva come era morta Pina, ma la sorella di Marcello ci tiene a precisare. Forse lei sa.
Inoltre, abbiamo visto nel sopralluogo della Polizia del 28 maggio che la porta del bagno di apre verso l’esterno, quindi non intralciava in nessun modo Marcello anzi aper-ta avrebbe agevolato. Eppure la chiuse o socchiuse.
Infine, se Pina era caduta, che c’entrava la respirazione?
Eppoi la posizione di Marcello: non capisco perché Mar-cello abbia compiuto –diciamo- i tentativi di rianimazione in piedi, piegato a testa in giù e non si sia piuttosto ingi-nocchiato a fare quelle operazioni; provate ad immagina-re: avete davanti a voi un corpo rantolante il primo istinto è inginocchiarsi; Marcello no. Si piega in avanti in una posizione che almeno per me appare scomodissima.
A meno che non gli serva tutto il peso del corpo per pre-mere sulla gola di Pina che purtroppo è ancora viva.

Il bagno! Un’altra incongruenza.
Come poteva Marcello pensare che la moglie stesse fa-cendo il bagno con due gessi? Tutt’al più si sarebbe fatta la doccia o ancora più coerentemente alle sue condizioni si sarebbe data una lavata a pezzi. come si sarebbe potuta insaponare, risciacquare? Come si sarebbe potuta depilare con la mano sinistra?
Anche la vasca con l’acqua corrente è una messa in scena finalizzata alla illusione del tentativo di bagno: se si fosse determinata a lavarsi, Pina avrebbe tutt’al più fatto una doccia e pertanto avrebbe lasciato -come tutti- aperto il tappo della vasca, anche perché ovviamente anche a voler pensare che avrebbe potuto coprire i gessi con qualche plastica, questa operazione sarebbe stata compatibile con la doccia, ma certamente Pina non si sarebbe immersa in una vasca piena d’acqua con due gessi.
Ma anche immergersi, come sarebbe stato possibile. Pina a stento riusciva a muoversi e lo hanno detto tutti, Davide compreso, come avrebbe potuto pensare di scavalcare i bordi della vasca anche solo per fare una doccia.
Ma inculcare negli altri l’idea che Pina stesse lavandosi, serve a Marcello per consentire che il bagno non venga posto sotto sequestro, venga pulito e vengano cancellate le tracce dell’omicidio. Cosa che avviene immediatamente, appena Pina viene portata Via
Perché signor Presidente, giudice a latere, giudici popola-ri, quel che mi induce ad una riflessione è che non si trat-tò, come ha riferito la teste Spiridigliozzi Maria, della semplice asciugatura dell’acqua e dell’aspersione delle macchie, bensì di un vero e proprio lavaggio. E lo con-fermano le condizioni delle pezze trovate nel sottoscala, di cui al verbale di sequestro. Le tracce sui muri sono sì ri-maste, ma confuse.

Poi c’è la candeggina. Si sentiva odore di candeggina e Marcello aveva le mani bianche, come se si fosse lavato con la candeggina.
Ci ha detto l’ufficiale del RIS che la “void area” (l’area su cui non ci so-no tracce di sangue) sulla bottiglia di can-deggina è sintomatica del fatto che quell’oggetto fu messo lì dopo l’omicidio. A quale scopo? O se ne servì Marcel-lo per lavarsi le mani sporche di sangue dopo l’omicidio, o se ne servì chi lavò la scena del crimine. In ogni caso, fu posta lì dopo l’aggressione, anche perché certamente Pina se si fosse dovuta lavare l’avrebbe trovata di intralcio lì, proprio sul bordo della vasca, e l’avrebbe tolta.

Ma ancora.

Marcello non si è posto minimamente il problema di come Pina avesse potuto raggiungere il bagno: non c’erano grucce, non c’era la famosa sedia da dattilografia con cui Pina è indiscusso si muovesse in casa, non c’era alcun ap-piglio. Marcello non si chiese come avesse fatto la moglie a raggiungere il bagno? Eppure almeno la sedia le sarebbe stata utile. Ma Marcello Pensa solo ad avanzare la sua te-si: Pina è caduta. Eppure ha il naso rotto, la testa rotta e lui la vede da vicinissimo, meglio di chiunque altro.

Vi sono poi altri contesti da considerare.
Abbiamo detto: la relazione con Dalina, il padre che non tollera la separazione o che Marcello abbandoni la fami-glia, questa moglie un po’ esaurita e depressa, che non si può più sopportare.
Ma non dimentichiamo le palesi reticenze di tutte le per-sone legate a Marcello, alle quali si sono dovute estorcere informazioni e che hanno negato persino l’evidenza.
Non dimentichiamo nemmeno il balletto della difesa su nonna Maria Celeste: in prima udienza fu dichiarata com-pletamente fuori di senno e tale è rimasta per tutto il pro-cesso ed anche alla fine, quando il Pubblico Ministero ci ha rinunciato, la difesa era d’accordo che fosse incapace.
Improvvisamente quando però la d.ssa Perna ha chiesto di acquisire gli interrogatori resi in istruttoria, Maria Celeste è diventata compos sui e la difesa non ha avuto alcuna re-mora a che, in prima battuta, Lei signor Presidente ne di-sponesse il prelievo in ambulanza a viva forza dai Carabi-nieri. Poi l’ha fatta portare dai familiari.
Perché tanta ostinazione? E’ evidente: per tentare di far-le dichiarare l’astensione come prossimo congiunto; il che avrebbe reso inutilizzabili quelle contrastanti deposizioni che ho prima esaminato, in cui subito la Maria Celeste e-sclude che sia andato nessuno perché era in giardino e poi addrizza il tiro riferendo di non poter vedere perché era nell’orto sul retro, perché prima sostiene di essere andata a vedere cosa era successo a Pina e poi dice che per caso è andata nel bagno di Pina dove non aveva motivo di anda-re; dove solo in secondo momento dà la presenza di Gae-tano a casa, che prima non aveva riferito.
Quest’incoerenza della difesa –prima era incapace poi non lo è più se si devono adoperare i verbali dell’istruttoria- va valutata come comportamento processuale deponente: il voler per forza togliere dal processo dichiarazioni signifi-cative perché contraddicono la difesa e contengono incon-gruenze a danno dell’imputato.
Certo non ignora signor Presidente questo difensore che la difesa è un diritto è può espletarsi con qualunque mezzo, ma questo è altro discorso. Perché un conto è ritenere che la difesa possa giovarsi dell’astensione del prossimo con-giunto, altro è invece il comportamento processuale dell’imputato e del difensore.
Anche perché –come dirò appresso- la facoltà di astensio-ne non è strumento della difesa ma diritto del teste, quindi la strumentalizzazione di questo diritto è un comporta-mento processuale concludente. Come pure comporta-mento processuale valutabile è il rifiuto dell’imputato a sottoporsi ad esame.
Anche questo signori della Corte d’assise dovete valutare e non sto inventando tesi strampalate ma è la Corte di Cassazione a ritenere che il silenzio dell’imputato è signi-ficativo.
Cass. pen. Sez. IV, 1/3/2007 n. 8871 insegna
E' vero che dall'esercizio di una facoltà difensiva ampia-mente legittima, quale quella di avvalersi della facoltà di non rispondere, non potrebbe mai farsi discendere alcun elemento a carico, ma è pur vero che l'indagato che inten-da non rispondere rinuncia ad allegare elementi a propria difesa, rinuncia a "spiegare" il contenuto indiziante degli elementi prospettatigli a carico.
Se questo è vero, avvalendosi della facoltà di non rispon-dere l’imputato Spiridigliozzi ha di fatto rinunciato a con-trastare gli elementi di prova emersi a suo carico. Dun-que, il rifiuto dell’imputato a sottoporsi ad esame ha valo-re concludente e sintomatico, utilizzabile a conforto e so-stegno degli elementi a suo carico delineati dal PM e da me. Ad un siffatto comportamento processuale –insegna la Cassazione- non può attribuirsi valore di prova univoca, ma certamente il valore di elemento della valutazione uni-taria, secondo il principio di concordanza.
E allo stesso modo va apprezzata l’astensione scelta da Di Ruzza Matilde, moglie di Tommaso Spiridigliozzi, da Si-ciliani Elisa, madre dell’imputato, e da Spiridigliozzi Gae-tano, padre.
In una recentissima decisione le Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione – mi riferisco alla decisione n.7208 del 14-02-2008- entrando nel tema della falsa testimo-nianza del prossimo congiunto, spiegano la ratio legis del diritto all’astensione, introducendo però principi che sono utili nel nostro caso.
Le sezioni unite –lo spiego ovviamente ai giudici popola-ri- è una corte formata dai presidenti delle sezioni penali della cassazione e si riunisce per discutere quando c’è un contrasto di vedute fra le varie sezioni, per fare in modo che il contrasto si componga e ne venga fuori una interpre-tazione unica. Quindi, sono il top della giurisprudenza.
Ebbene, nella sentenza che sto per commentare, le SS UU concludono che il familiare che non si astiene dal testimo-niare e non dice la verità risponde di falsa testimonianza. Potrebbe sembrare che non c’entri nulla con noi, ma non è così
Secondo le SSUU la norma che consente l’astensione del familiare è giustificata dalla necessità di tutelare il teste dal sentimento che lo spingerebbe a testimoniare il falso per motivi di solidarietà familiare. Cioè, poiché chi testi-monia in un processo che vede imputato un familiare è portato a salvarlo, ma è combattuto dall’esigenza di non commettere falsa testimonianza, il legislatore, prende atto del conflitto e riconosce prevalente il motivo di ordine af-fettivo, accordando la facoltà di astenersi.
Quindi avverte la Corte che il diritto di astensione è mani-festazione del fatto che il teste non riesce a superare il conflitto, ossia si astiene perchè –quale familiare- sente, da un lato, di dover tutelare l’imputato, e, dall’altro, di non dire il falso.
E’ per questo motivo che le sezioni unite concludono che se la facoltà di astensione non viene esercitata, ma si men-te, si risponde di falsa testimonianza.
Quello che ci interessa di questa decisione è il postulato di fondo: il testimone astenendosi esercita non un diritto o un dovere morale verso il proprio congiunto, ma il diritto di tutelare se stesso dall’accusa di falsa testimonianza. Quindi le SSUU introducono il concetto che il testimone si deve astenere quando è convinto che se non rende falsa testimonianza nuocerà all’imputato.
La Corte parla addirittura di "tormentoso contrasto in cui il testimone si trova a dover dire la verità a servizio della giustizia e l'insopprimibile istinto della difesa propria o del prossimo congiunto, contrasto che la legge non poteva superare esigendo eroismo di eccezione da parte dei testi-moni". Quindi, il legislatore pone fine al tormento ricono-scendo il diritto al silenzio.
Perchè ci interessa questa decisione è evidente: perché tre familiari, tra cui il padre e la madre dell’imputato e la co-gnata hanno scelto di astenersi. L’astensione di questi tre personaggi non è e non può essere un fatto neutro: evi-dentemente se l’analisi delle sezioni unite è giusta –e non v’è motivo di ritenere diversamente- i tre testi astenendosi hanno manifestato di essere in conflitto emotivo notevole, in “quel tormentoso contrasto” di cui parlano le sezioni unite, per il quale non si può esigere da loro “eroismo di eccezione”: hanno insomma manifestato che dovevano mentire e per questo avevano paura di sottoporsi alle do-mande dell’ottimo Pubblico ministero o del modesto di-fensore di parte civile. Quindi, chi si è astenuto non lo ha fatto per ansia o per un qualsiasi carico emotivo, ma per-ché ha ritenuto che deponendo avrebbe mentito oppure a-vrebbe accusato Marcello Spiridigliozzi. E mentre per i genitori v’è umana comprensione anche di questo difenso-re, Di Ruzza Matilde, solo cognata di Marcello Spiridi-gliozzi, rimane emblematica ed enigmatica in questo con-testo.
Non posso dirvi quello che la teste invece riferì, non avva-lendosi della facoltà, al Pubblico Ministero, altrimenti il Presidente mi rimbrotterebbe in malo modo –e avrebbe ragione, tranne che sul malo modo- ma certamente posso ipotizzare –niente me lo vieta- che il tormento di Matilde Di Ruzza potrebbe riguardare la deposizione del marito, Spiridigliozzi Tommaso, a proposito di quella contabile bancaria e del preteso inspiegabile suo repentino allonta-namento dalla macelleria per andare da Marcello a portar-gliela.
Ed ecco allora che il quadro è forse più completo: Gaeta-no, Elisa e Matilde non hanno testimoniato per non portare elementi all’accusa. Spiridigliozzi Maria Celeste doveva essere portata qui per farla astenere per lo stesso motivo; i familiari e le persone vicine a Marcello hanno mantenuto una rigida omertà; Marcello ha dato versioni diverse nelle varie occasioni, tutte inconcludenti, ed ha avuto paura che Dalina rivelasse qualche particolare scomodo al PM; infi-ne Marcello non si è fatto esaminare da noi.
Tutto questo non può non essere valutato da voi Giudici, non possono rimanere elementi neutri, privi di significato.
Certo non è un’accusa, una prova diretta, ma ci dice che qualcosa ci è stato nascosto, ci è stato impedito di sapere e quel qualcosa poteva accusare Marcello. D’altronde, che qualcosa ci è stato nascosto si evince ancora dalle intercet-tazioni ambientali, in quel gesto di Gaetano Spiridigliozzi alla moglie alla vista della telecamera: le fa un inequivo-cabile segno di tacere, portandosi l’indice al naso.
Perché? A voi la risposta, aggiungendo queste osserva-zioni agli altri elementi molto forti che il PM vi ha indica-to ed alle risultanze emerse al di fuori dell’aula che io vi ho ricordato, constaterete che convergono a smentire la versione di Marcello, ma soprattutto a provare che Mar-cello ebbe occasione, tempo e movente per commettere l’uxoricidio.
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Io pur facendo miei tutti i rilievi e gli elementi di giudizio che vi ha formulato il PM nella sua requisitoria, non mi sento di sposare la sua impostazione secondo cui questo è solo un processo indiziario; in questo processo ci sono le prove, sono prove in parte negative, minori certamente della prova diretta, della confessione, della flagranza di reato, di elementi scientifici diretti, come il DNA, ad e-sempio, ma sono prove, non indizi.
L’indizio promana da un processo logico deduttivo, che partendo da un fatto diverso, noto, dimostra in via logica il fatto da provare. Invece la prova -e scomodo ancora una volta le SS.UU. decisione n.624 del 2002- è la dimostra-zione del fatto, attraverso una fonte di prova.

La questione non è solo terminologica: ogni prova si compone di due fatti, uno è quello di cui occorre dimostra-re l'esistenza, e il fatto probatorio che è finalizzato a dimo-strare l'esistenza o l'inesistenza del fatto principale. Quin-di, la prova non è altro che la dimostrazione del fatto.
Per questo io dico che qui non abbiamo indizi, ma prove, perché qui non abbiamo deduzioni, abbiamo constatazioni, dimostrazioni che Marcello e solo Marcello poteva porre in essere l’azione delittuosa.
Innanzitutto le molte versioni, all’apparenza solo incon-cludenti e contraddittorie, di Marcello Spiridigliozzi, pro-vano invece che egli ha costruito una storia alla quale ogni volta ha aggiunto un particolare, che poi si è rivelato falso: il falso rapporto sessuale alle 16, il tentare di accreditare falsamente che rimase in casa con le due figlie, smentito da Tommaso, che si portò Davide e Letizia, e da Davide, che vide il padre arrivare da solo alla macelleria del non-no; la ricevuta bancaria prima ritirata dalla madre e poi portata in macelleria da Tommaso; il falso sull’apertura al-le 17, che già sarebbe sospetta, portata fino alle 17,30 da Colella Eraldo; le contraddizioni anzi le false dichiarazio-ni sugli scontrini e l’apparentemente inspiegabile chiusura della cassa alle 17,36, come se aspettasse di dover scappar via da un momento all’altro; la falsa spesa nel negozio di Colella Marcello, che invece hanno fatto le figlie; l’insistere sulla caduta quando a tutti era evidente l’aggressione fisica e a lui doveva essere più che evidente, poiché aveva visto bene le condizioni di Pina per terra; l’affermare ancora falsamente che Pina aveva il pigiama, che nessuno ha più ritrovato, peraltro abbassato alle gi-nocchia con la schiuma sul pube, per poi affermare invece in altro interrogatorio che Pina era nuda, mentre Davide ha visto un accappatoio, questo invece ritrovato sporco di sangue.

E non aggiungo quelle che possono essere circostanze di contorno, poichè la difesa potrebbe dimostrare che si pre-stano ad interpretazioni non univoche: non aver dato a D’Annolfo Maria e Zanni Enzo la versione della caduta, non aver ammesso la storia con Dalina, aver nascosto ai figli per dieci anni la verità, … e non continuo perché il PM ha visto molto più di me.
Ma non posso non aggiungere le altre prove: Marcello è certo che fu l’ultimo ad uscire di casa e a vedere Pina; è certo che a quell’ora alle 16 si era liberato dei tre figli, spedendoli con i suoi familiari, Davide e Letizia con Tommaso, Chiara con il nonno, visto che Davide vide Marcello arrivare da solo dalla nonna e vide Chiara solo la sera, quando il nonno era ritornato; Marcello è certo che ebbe tutto il tempo di compiere l’omicidio prima di uscire, ma anche dalle 17,36 alle 19,30, se non fosse che Spiridi-gliozzi Maria Celeste esclude che qualcuno si recò in ca-sa quel pomeriggio; è certo che Marcello Spiridigliozzi era l’unico che poteva entrare e uscire da casa sua senza farsi notare; è certo che Marcello Spiridigliozzi ebbe tutto il comodo tempo di compiere l’omicidio, spogliare Pina, lavarsi le mani, raccogliere i panni sporchi di sangue, far sparire il pigiama di Pina ed i propri panni insanguinati; è certo che solo Marcello poteva cambiarsi d’abito e cam-biarsi le scarpe in quella casa e uscire senza lasciare trac-ce; è certo che Marcello Spiridigliozzi aveva un movente molto importante per lui: Dalina della quale era pazzo; è certo che Marcello Spiridigliozzi, pure davanti alla trage-dia, ha plagiato i figli, evitando loro di sapere e di pensare alla loro mamma e a come era stata uccisa; è certo che Marcello architettò la messa in scena, poiché non poteva non capire che la moglie era morta ammazzata; è certo che Marcello Spiridigliozzi ha fatto credere l’incredibile anche ai Carabinieri e cioè che si trattava di un incidente domestico e non di un omicidio.
La certezza di questi eventi è prova.
Di contro Marcello non offre prova contraria: non prova che cosa fece dalle 16 fino oltre almeno alle 17 e dalle 17,36, ora in cui chiuse la cassa, alle 19,30, ora in cui se ne tornò a casa; Marcello non tenta nemmeno di provare la possibilità che un estraneo sia entrato in casa o che qualcuno avesse un motivo per uccidere Pina e in quel modo brutale.

E se non sono indizi, ma fatti, prove, Marcello ha voluto nascondere, ingannare gli inquirenti e l’unica spiegazione possibile è che lo fece per guadagnarsi l’impunità.
Marcello Spiridigliozzi ha cercato di negare una realtà in-sopprimibile e molto evidente. Solo per guadagnare l’impunità.

Ma anche l’attività dei suoi familiari sono una prova, a cominciare –come ho spiegato- dalle astensioni in quest’aula per finire all’omertà; è un fatto che i familiari di Marcello Spiridigliozzi hanno creato confusione e de-viato le indagini, a cominciare da Tommaso con quell’assurda apodittica storia della ricevuta bancaria; è un fatto che i familiari di Marcello hanno cancellato le tracce del delitto, lavando la casa; è un fatto che Spiridi-gliozzi Gaetano ha fatto cenno alla moglie di tacere dinan-zi la telecamera; è un fatto che Letizia non desidera che si riaprano le indagini perché “papà ci ha cresciuti”.
Tutti questi sono fatti, non indizi, ma prove.
In questo non concordo con il PM, questo non è un pro-cesso indiziario, ci sono fonti di prova a iosa, sufficienti ad una condanna, perché tutti questi elementi confermano il fatto storico, non per ragionamento logico-deduttivo, ma per evidenza, perché non trovano nessuna spiegazione se non nel delitto. La prova è ciò che dimostra il fatto. I comportamenti comprovati danno la dimostrazione del fat-to omicidiario.
Il familiare ucciso, la contraddittorietà delle versioni, l’impegno dei familiari di creare piste false alternative, la menzogna, gli elementi concorrenti, l’esclusione (non la mera improbabilità) che viene da Maria Celeste che estra-nei siano penetrati in casa, il fatto che quelle azioni poteva compierle solo l’imputato, il movente. Tutto prova che fu Marcello Spiridigliozzi.
Un mese fa la Corte di Cassazione ha ritenuto sufficiente a condannare per omicidio molto meno di quanto abbiamo noi a disposizione per condannare Marcello Spiridigliozzi. Mi riferisco alla vicenda di Cogne, di Anna Maria Franzo-ni, che può sembrare per molti versi simile a questa, ma non lo è, perché lì la Cassazione si è accontentata di ra-gionamenti logico-deduttivi, di indizi, noi abbiamo prove di comportamenti.
Anche lì c’erano menzogne e contraddizioni, ma qui ab-biamo i riscontri di come sono andate veramente le cose; anche sul caso Cogne i familiari della Franzoni hanno cer-cato di depistare, di creare false tracce, ma noi abbiamo il fatto che mancano le tracce, una prova negativa che indica in Marcello Spiridigliozzi l’unico a poter uscire dopo es-sersi cambiato e il fatto storico, dunque, provato, che i fa-miliari di Marcello hanno cancellato le tracce del delitto, lavando la casa;
per Cogne si è ritenuto improbabile che un estraneo fosse entrato in casa, qui abbiamo la prova, nella testimonianza di Spiridigliozzi Maria Celeste, oltre alla considerazione che Marcello Spiridigliozzi era l’unico che poteva entrare e uscire senza farsi notare e che non ha nemmeno tentato di provare che un estraneo si sarebbe potuto introdurre in casa.
A Cogne tutto sarebbe avvenuto in 5 minuti, ma noi ab-biamo la prova che Marcello Spiridigliozzi ebbe tutto il tempo di uccidere e spogliare Pina, lavarsi le mani, racco-gliere i panni sporchi, facendo sparire quelli di Pina ed i propri, cambiarsi d’abito e le scarpe; e solo lui poteva far-lo in quella casa
a Cogne il movente è rimasto incerto (il timore di una me-nomazione fisica del bambino o uno scatto d’ira perché Samuele faceva i capricci) noi abbiamo un movente ac-certato dalla testimonianza diretta di Dalina Jaupi Hassan;
la Cassazione per Cogne ha guardato al comportamento freddo e distaccato della Franzoni come elemento di giu-dizio, noi abbiamo la prova che Marcello andò a importu-nare Dalina ad Alessandria e si ritirò solo perché questa minacciò di parlare con il dott. Arcuri, abbiamo la prova che Marcello Spiridigliozzi ha plagiato i figli, per impedi-re che si mettessero in mente di sapere e di pensare a come era stata uccisa la mamma e da chi.
Eppure, la Corte di Cassazione ha ritenuto che quei pochi elementi, quelli sì indiziari, consentissero di ritenere Anna Maria Franzoni responsabile oltre “ogni ragionevole dub-bio”.

Sono certo che la difesa si avvarrà molto di questo concet-to, cercando di instillarvi la convinzione che ci sia il ra-gionevole dubbio. Attenzione a non cadere in questa trap-pola, il ragionevole dubbio è principio del processo indi-ziario, come quello di Cogne, qui abbiamo le prove, delle prove negative, lo ammetto, ma delle prove, per cui defini-re questo processo indiziario mi pare riduttivo, noi siamo molto oltre.
Qui non si tratta di valutare elementi spurii e vedere se ci troviamo di fronte fatti che solo con estrema difficoltà o con estrema improbabilità, vanno in segno opposto alla re-sponsabilità dell’imputato. Qui si tratta di valutare fatti storici che danno prova, comportamenti certi e provati nel-la loro storicità che non trovano altra spiegazione se non nell’omicidio. Insomma, non dovete dedurre nulla: met-tete insieme il tutto e sarete daccordo con me che manca solo il filmato di Marcello Spidigliozzi che sbatte la testa della moglie contro le pareti del bagno e che le preme le mani sulla gola.
Qui non abbiamo prove contraddittorie né insufficienti abbiamo prove univoche. Nel sistema penale non ci sono punti di contatto, non esiste il filo del rasoio, un muro di-vide la condanna dall’assoluzione: l’imputato risulta col-pevole se le prove convergono; l’imputato non è colpevo-le se la prova manca, è insufficiente o contraddittoria.
E ora mi rivolgo ai giurati del popolo. Coloro fra voi che hanno avuto la curiosità di informarsi sui diritti dell’imputato o ricordano dagli studi Cesare Beccarla o hanno letto di altri autorevoli giuristi classici, avranno no-tato che la preoccupazione principale per la quale si pro-pugnarono le tesi garantiste più oltransiste fu di sottrarre l’imputato all'arbitrio ed ai privilegi dell'accusa. Ricordo Carrara, che definisce gli inquisitori come coloro che at-traverso "i dardi avvelenatori della calunnia" permettono che la giustizia penale divenga flagello degli innocenti.
Ma il problema a quei tempi era nelle modalità del proces-so e del giudizio, che essendo inquisitorio comportava la necessità di garantire e tutelare l’imputato contro i PM che cercavano a tutti i costi un colpevole in nome della tutela del popolo.
"E' molto peggio condannare un innocente che lasciare li-bero un colpevole" secondo la giurisprudenza nordameri-cana; l'oltre il ragionevole dubbio è regola di giudizio e sull'onere probatorio, unita all’"in dubio pro reo" della sa-pienza romana.
Ma allora si era nel rito inquisitorio, in cui la prova si formava fuori dall’aula, e al Giudice veniva portata –lo di-co sempre per i Giudici popolari- la causa già pronta con documenti e testimonianze acquisite fuori del processo e il PM doveva solo illustrare l’istruttoria già svolta. Esisteva la figura del Giudice Istruttore che preparava il processo e l’avvocato era ridotto ad oratore più o meno abile a smon-tare prove o indizi che si erano formati fuori dell’aula.
Il processo era insomma una battaglia oratoria in cui il Giudicante aveva studiato le carte del PM ed era veramen-te difficile per il difensore –che non aveva alcun potere i-struttorio- dimostrare il contrario. Pensate a Sacco e Van-zetti o per arrivare più vicini a noi e ai giorni nostri a En-zo Tortora. Ma Enzo Tortora visse la sua vicenda con il vecchio processo, nel 1983; dal 1990 invece abbiamo il rito accusatorio, quello con cui abbiamo celebrato questo processo. Questo rito ha poi visto aumentare dal 1990 in poi le garanzie, fino alla introduzione nella carta costitu-zionale del principio del giusto processo.
Dunque, rispetto a quell’esigenza esasperata di garantismo oggi i tempi sono diversi e diverse devono essere le vostre considerazioni e diverso l’approccio alle risultanze pro-cessuali.
il rito accusatorio è molto garantista, non si acquisisce nul-la dell’attività istruttoria: si inizia con una tabula rasa, voi della Corte d’assise non avete saputo in anticipo cosa ave-va in mano il PM, lo sapeva solo il di-fensore dell’imputato che perciò ha avuto ogni possibilità di chie-dere di dimostrare il contrario. Il processo oggi è un dia-logo in cui non c’è più un PM preponderante e alle prove d’accusa l’imputato non può ma deve opporre il contrario. Quindi, anche il ragionevole dubbio non può intendersi come una volta. Su quella lavagna del tutto pulita, la tabu-la rasa, insieme abbiamo scritto quello che è venuto fuori dall’istruttoria. Non vi sono più quelle preoccupazioni di cui parlavo prima.
La Corte di Cassazione con la sentenza che condanna An-na Maria Franzoni detta una regola secondo la quale il Giudicante deve saper interpretare tutti gli elementi portati dall’accusa, anche quelli che presi singolarmente non fos-sero una prova. Ma noi non abbiamo nessun elemento che preso singolarmente non sia prova e non ci porti nella stessa identica direzione.
Per cui non sarebbe nemmeno il caso di discutere di ra-gionevole dubbio. Ma voglio essere scrupoloso, affron-tiamolo questo concetto.
Nei paesi di common law, dove il concetto è molto pre-sente, il ragionevole dubbio non è entità oggettiva: non si invoca S.Tommaso “se non vedo non credo”, ormai anche lì si ritiene che hanno peso considerevole anche gli ele-menti non essenziali, per il fatto stesso che il processo ac-cusatorio pone le parti (accusa e difesa e in questo caso la parte civile) come protagonisti del processo.
Cosicché, se è vero che l'accusa ha l'onere di provare tutti gli elementi del reato, l'imputato deve dare la prova con-traria di almeno uno di questi elementi. Il dialogo, il dia-logo di cui vi ho detto: ogni parte porta il suo. E’ l’imputato dunque a dover insinuare il ragionevole dubbio.
Ma in questo processo Marcello Spiridigliozzi non si è di-feso, non ha dato la minima dimostrazione che altri avreb-be avuto possibilità e opportunità di introdursi in casa sua, uccidere la moglie e sparire non visto con i vestiti sporchi di sangue. In questo processo Marcello Spiridigliozzi non ha spiegato perché ha battuto il primo scontrino solo alle 17.33, non ha spiegato perché Giuseppe Spiridigliozzi non lo trovò in negozio, non ha spiegato chi e perché avrebbe avuto interesse ad uccidere Pina, ha negato strenuamente la relazione con Dalina, deponendo una falsità smentita dalla stessa Dalina, e con lui i suoi parenti si sono rifiutati di rispondere per paura di doverlo accusare.
Se voleva invocare la regola dell'oltre ogni ragionevole dubbio, dunque, Marcello Spiridigliozzi avrebbe dovuto inocularlo in noi; in voi, ma anche in me, E non lo ha fatto. Ha taciuto, ha rinunciato a difendersi, ha rinunciato a dimostrarci che non avrebbe avuto il modo, il tempo, il movente, l’occasione. Ugualmente i suoi familiari, hanno rifiutato il dialogo, il confronto con noi, hanno rinunciato a provarci l’innocenza di Marcello Spiridigliozzi, non for-nendoci alcun contributo di giudizio, ed anzi è provato che hanno nascosto la verità addirittura depistandoci.
Ma quando non si ha niente da nascondere non si nega l’evidenza, non si gira intorno ai fatti, non si cerca di oc-cultare, non si sfugge all’interrogatorio e non si fanno sfuggire i parenti e soprattutto si è sinceri.
Ma quale credibilità possiamo dare a un imputato che non parla, che sta aspettando di capire l’aria che tira per propi-narvi una dichiarazione spontanea, senza contraddittorio e senza che nessuno gli possa contestare niente, alla fine della discussione, dopo che tutti avremo detto la nostra. Che credibilità può avere l’imputato che ha mentito e vi abbiamo provato che ha mentito su molte circostanze si-gnificative; che credibilità possiamo dare all’imputato che mantiene il segreto con i propri figli, mentendo loro per dieci anni, che ha mostrato un’immoralità di fondo por-tandosi il figlio dodicenne a casa dell’amante, che ha tolto alla moglie la voglia di vivere, l’ha torturata, dileggiata in vita ed in morte, facendo credere ai figli che fosse talmen-te incapace da cadere da sola per l’ostinazione di lavarsi da sè.
Ed allora il ragionevole dubbio non può esistere.

Il ragionevole dubbio non è un concetto quantitativo, è un concetto qualitativo. Ma anche su questo bisogna inten-dersi. Il "dubbio sostanziale" o dubbio tale da far sorgere una "grave incertezza" non c’entra nulla con il ragionevole dubbio. Qualsiasi cosa si riferisca agli affari umani è a-perta a qualche dubbio possibile, ma il ragionevole dubbio è un’altra cosa, è superato quando, dopo tutte le possibili considerazioni, il materiale probatorio non offre alternati-ve logiche alla tesi dell'accusa, non per un fatto sentimen-tale o emotivo. Datemi la prova logica del contrario!
Nel processo penale infatti non si adotta né il principio dell'intima convinzione, né il metodo del più probabile. Le prove esibite dall'accusa devono persuadere nel senso che non danno adito ad una interpretazione logica diversa.
Questo significa al di là del ragionevole dubbio, gli sforzi della difesa devono concentrarsi nella dimostrazione che le prove dell'accusa non sono persuasive su ogni fatto es-senziale, allora c'è un dubbio ragionevole. Ma i fatti es-senziali li abbiano provati: occasione, tempo, movente. E accanto a essi i fatti non essenziali ma pure essi conver-genti verso la stessa direzione: le menzogne, l’omertà, il depistaggio, teorie fantasiose, l’astensione, la strumenta-lizzazione dell’astensione e tutto quello che vi ho fatto no-tare fino ad ora e tutto quello che vi ha fatto notare il PM

Perciò arrivo alla conclusione che se si esaminano tutti gli elementi offerti in questo processo, nessuno è suscettibile di due interpretazioni ragionevoli, una che punta alla col-pevolezza, l'altra all'innocenza. Ragionevole dubbio è proprio questo: se i fatti dimostrati offrono il fianco a due conclusioni ugualmente logiche.
E Voi signori giudici rappresentanti del popolo dovrete vagliare quello che vi abbiamo portato all’attenzione, og-gettivamente considerandolo e verificandolo attraverso un processo logico, che non lascia spazio a dei dubbi: cia-scun elemento deve risultarvi –come risulta a me- logica-mente spiegabile solo nell’ottica dell’omicidio.
Questa è la verità giudiziale: per il giudice è verità ciò che l'accusa è riuscita a provare al di là del ragionevole dub-bio. Quindi, la Vs libertà di convincimento è vincolata, non potrete valutare le prove secondo un parametro qual-siasi o secondo un giudizio soggettivo; non siete liberi di valutare le prove secondo il criterio della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che". Esiste uno stan-dard probatorio imposto dalla legge. E sarà poi il redatto-re della decisione ad avere il compito più gravoso, poiché dovrà chiarire il metro con cui voi avrete valutato le prove di fronte al popolo italiano nel cui nome voi agite. La sen-tenza sarà la sintesi delle vs singole opinioni, delle vs sin-gole motivazioni oggettive, perché il libero convincimento non significa convincimento arbitrario, ma regola e ragio-ne.

Non sta a me discutere della pena, è compito del PM, che ha manifestato la sua richiesta.
Sembra cinico pensare al massimo, alla pena senza spe-ranza.
Il PM ha fatto riferimento alle modalità efferate del crimi-ne, all’impegno di sviare le indagini, ai depistaggi dell’imputato e dei suoi familiari che mostrano scarso ri-spetto per la collettività e per la legalità.
E’ giusto; il processo penale è il luogo ove la collettività si difende dal crimine
Ma io penso che il crimine più grande commesso da Mar-cello Spiridigliozzi sia stato nascondere ai figli la verità, non tanto togliere loro la madre, non per il fatto in se di aver nascosto il vero, ma per averli cresciuti –come ha detto Letizia- lasciando però che rimanessero nella in-fantile convinzione di disistima della propria madre, per-ché Marcello Spiridigliozzi ha operato scientemente –e questo è un fatto- affinché i figli perdessero ogni contatto con la famiglia della madre, convincendoli che vuole solo speculare sulla morte di Pina. Marcello Spiridigliozzi ha lasciato nella loro mente che dopo quell’ultimo saluto il pomeriggio del 19 maggio del ’97 Pina fosse stata così pazza così stupida così incapace così inetta da morire per farsi una doccia da sola, quando non poteva.
Marcello Spiridigliozzi ha compiuto il crimine di lasciare nei figli il ricordo di una madre stupida e incapace, imme-ritevole di una lacrima, perché si era di fatto uccisa da so-la, si era procurata la morte da sola per imbecillità, dopo aver tentato di suicidarsi. Ed è per questa speranza tolta, per questo affetto tolto che va condannato anch’egli senza speranza e senza affetto alla pena richiesta.


Un appello finale a voi giudici del popolo, vi ho sempre chiamati così in questo intervento. Ricordate che rappre-sentate la collettività, quella stessa collettività che si è e-spressa nella voce di Tina Costantini durante le intercetta-zioni che abbiamo visto e sentito insieme: è lui al 100% tutti ne sono convinti, il popolo che voi rappresentate ne è convinto.
    
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